Titolo: Cioccolata a colazione
Titolo originale: Chocolates for breakfast
Autore: Pamela Moore
Cenni sull’autore: Salutata nel 1956 come la Francoise Sagan d’America, Pamela Moore a soli 18 anni divenne dalla sera alla mattina un clamoroso caso letterario. Cioccolata a colazione, questo il romanzo che le portò subito la notorietà, fu un vero e proprio success de scandale. Nelle sue pagine la giovanissima scrittrice affrontò, con la giusta dose di disincanto, argomenti considerati allora tabù come l’omosessualità, l’eccessivo uso di alcol, il suicidio giovanile. Per sfuggire alla curiosità ossessiva dei mass media, Pamela Moore visse quei “mesi caldi” in Europa, lontana dalla madrepatria. Così mentre il suo romanzo d’esordio sulla gioventù dorata di New York e Los Angeles vendeva milioni di copie ed i giornali si interrogavano su questa studentessa di buona famiglia che scandalizzava l’America ma conquistava l’Europa, l’autrice si dedicava, anima e corpo, ai suoi serissimi studi di storia medievale a Parigi. Un successo che non venne però replicato dai successivi romanzi e l’interesse dei giornali andò inevitabilmente scemando. Sposatasi con un giovane avvocato, Pamela Moore, sofferente, a quanto pare, di bipolarismo, si tolse drammaticamente la vita nel giugno del 1964 con un colpo di carabina. Non aveva ancora 27 anni. (Fonte: http://www.queerblog.it/post/14873/cioccolata-a-colazione-pamela-moore)
Data di pubblicazione: 1957
Edizione: Oscar Mondadori
Traduttore: Tommaso Giglio
Numero pagine: 253
Consigliato: Sì.
L’innocenza può essere raggiunta solo nell’amore. Credo che tu non lo sappia. Qui, chez-nous, l’amore non è mai innocente. E’ corrotto come l’occhiata furtiva di un vecchio. I cocktail falsano le sensazioni; l’oscurità nasconde la giovinezza dei corpi; gli occhi chiusi, le narici contratte, il silenzio, annullano il piacere.
Non capisco – e tanto meno penso che capirò mai – il meccanismo per il quale alcuni libri finiscano nel dimenticatoio mentre altri rimangano scintillanti sotto le luci della ribalta. Gli alcuni libri di cui parlo, naturalmente, sono libri che valgono la pena di essere letti, che hanno conosciuto momenti di fama ed in seguito hanno perduto del tutto seguito.. Non mi preoccupo infatti di quei libri che, smaniosi della meritata fama del più forte, nell’orgia assassina della catena letteraria defraudano i pesci più piccoli, più deboli, meno leggibili, meno godibili.
Va da sé che non capisco come un libro quale “Cioccolata a colazione” di Pamela Moore sia potuto andare a finire del dimenticatoio, e non dedicherò altre parole a questo mistero al quale guardo con sdegno. Piuttosto, mi cimenterò a scrivere parole che possano, nel mio piccolo, indurre altre persone a reperire questo testo e goderne la lettura. Inizierò a parlare di questa folgorante lettura prendendomi una licenza, azzardo un altissimo paragone, dirò infatti che Pamela Moore è l’erede diretta di Francis Scott Fitzgerald. Da quest’ultimo infatti ha ereditato eleganza nello stile, disillusione nello svolgersi degli eventi, realismo nel dipingere i personaggi. E, come il mentore che le ho attribuito, sia la scrittrice, che i suoi personaggi, fanno parte della Generazione perduta. Non la stessa Fitzgeraldiana che occupò tra frizzi e sollazzi gli Anni Venti, ma un’altra, altrettanto alcolizzata, disincantata, annoiata, quella degli anni Cinquanta. Il palcoscenico è sempre l’America. L’atmosfera è sempre quella ambigua dei cocktail parties al quale già Jay Gatsby ci aveva invitati.
Cambia il punto di vista. Il filo della narrazione si dipana concentrandosi su Courtney Farrell, sedicenne figlia di un’attrice di Hollywood ormai in declino e di un padre assente nei cui confronti prova quasi paura ogni volta in cui si incontrano, come se si trattasse di uno sconosciuto. Dapprima rinchiusa tra le pareti del college di Scaisbrooke, in seguito giovane scopritrice delle false apparenze del mondo poco brillante di Hollywood, ed infine catapultata nel ritmo frenetico di New York, Courtney è un’anima infelice. Lega la sua infanzia al ricordo degli alcolici di cui era succube la madre, per diventarne vittima nell’adolescenza in un modo quasi automatico, come se si trattasse di un destino inevitabile. Depressa, smarrita nella ricerca della verità, questa giovane ragazza americana passerà dal parlare di Joyce con un’insegnante del suo college al cambiare di compagnia in compagnia maschile per porre rimedio ad un’infanzia perduta in un castello di sabbia andatosi frantumando.
Gli aspetti interessanti di questo libro andato perduto sono tanti. Omosessualità, distruzione del mito hollywoodiano, suicidio giovanile. La stessa Pamela Moore si uccise a meno di trent’anni con un colpo di carabina, e questo suo anelito di morte si avverte per tutta la narrazione. Per questo parlo di questo libro in modo così impietrito, perché sono amareggiata, ancora una volta toccata da una mano quasi mortale, proprio come mi accade quando leggo Francis Scott che, se non si suicidò, non volle sicuramente bene alla propria vita. Tutte le pagine ingiallite di questo volume trasudano amarezza, abbandono, sono come un grido d’aiuto che si perde soffocato tra litri d’alcool e notte fattesi mattino in compagnia della “ciurma”, poco assennata compagnia composta da giovani studenti rivoltosi di Yale con i quali Courtney scorrazza per New York. E questi giovani sbandati, che si annoiano nel divertimento, che nella noia stessa e nella routine avvinazzata e smodata ricercano se stessi, non sono altro che i Belli e dannati ai quali Fitzgerald già si abituò, è curioso notare che ricorrono persino delle omonimie. C’è un Anthony perduto là, c’è un Anthony perduto qua. Balza agli occhi il fatto che la frenesia con la quale i personaggi vivono è un modo azzardato di combattere il fatto che raggiungere la felicità sia impossibile. Qualsiasi aspetto dell’esistenza, persino la sessualità, è trattato con superficialità. Tanto per i giovani, quanto per gli adulti. La madre di Courtney, attrice fallita, ne è l’emblema. Impegnata a salvare le apparenze, non si cura di indebitarsi per una cifra molto più alta di quella che potrà restituire.
Ma la nota dolente di questo romanzo è il personaggio di Janet, compagna di stanza di Courtney presso Scaisbrooke e sua Caronte per la bella e giovane vita di New York, è un personaggio tragico all’inverosimile lo scarto della società, il prodotto di un mondo che non si cura di volersi bene, e di voler bene ai propri figli. Anche nel rapporto tra le due si nota una certa forma di mutismo, quasi un’impossibilità a essere se stessi, un impasse di emozioni e capacità di conoscersi più a fondo. Parlano di ragazzi, dell’alcool che bevono continuamente e delle sigarette che una insegna all’altra a fumare. Nemmeno quando sarà troppo tardi, riusciranno a tendersi realmente la mano.
Una prosa impeccabile, un accanimento nei confronti del lettore silenzioso, ma profondo, fanno di questo romanzo un prodotto imperdibile. E ne fanno per me un oggetto di inestimabile valore, in quanto giuntomi dalle mani di una persona amata che, per me, lo ha riesumato dalla polvere di un mercatino, consapevole di quanto ci avrei ritrovato i miei amati Zelda e Francis Scott. Non posso purtroppo provvederne la ristampa, ma vi chiedo gentilmente, per voi stessi, di munirvi di questa lettura, spulciate nei mercatini, chiedete alle biblioteche. Non perdete per nulla al mondo il grido che Pamela Moore fece prima di saltare nel vuoto.
Luana Cau